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[...] Non è per nulla che nella mitologia greca un uomo con la testa di toro è messo a guardia della costruzione più misteriosa che si trovi nel mondo della leggenda. [...]:
Giorgio De Chirico
e l'enigma di Torino
Trent’anni fa moriva il grande pittore: una sua pagina ne restituisce gli estri
GIORGIO DE CHIRICO
Il 20 novembre saranno trent’anni dalla morte di Giorgio De Chirico. Protagonista di primissimo piano della cosiddetta pittura metafisica, fratello di Alberto Savinio, De Chirico ha avuto una formazione internazionale a contatto con i più brillanti talenti europei, che stimolarono in lui anche una fervida vena narrativa. La si riconosce dalla pagina che pubblichiamo tratta da Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, a cura di Maurizio Fagiolo, Einaudi 1985. Tutta l’opera letteraria del «pictor optimus» sta per essere ripubblicata da Bompiani. Il primo volume degli Scritti (1911-1945), curato da Andrea Cortellessa, sarà presentato martedì 25 novembre a Roma, nell’Aula di Giulio Cesare al Palazzo Senatorio di piazza del Campidoglio. All’incontro presieduto da Achille Bonito Oliva partecipano, con Cortellessa, Umberto Croppi, Paolo Picozza, Francesco Poli, Elisabetta Sgarbi e Vincenzo Trione.

Paola Levi-Montalcini è di Torino. È in questa città monarchica, fluviale e regolare che è vissuta ed ha lavorato fino ad oggi. Torino è una città molto curiosa che l’estetismo internazionale non ha ancora catalogata tra le meraviglie di the beautiful Italy. Lo straniero, per poco che sia innamorato cotto di cultura estetica, e che per la via, per le rotaie o per il mare si accinge a visitare il paese ove fiorisce l'arancio, ha ben altre mete: Venezia, Firenze e quelle piccole città dell’Umbria e della Toscana, mecche degli amatori di primitivismo, di purezza e di spiritualità. Eppure Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante non solo d’Italia ma di tutto il mondo. Colui che per primo scoprì l’ermetica bellezza di Torino fu un poeta-filosofo tedesco d’origine polacca: Federico Nietzsche. Fu il primo a sentire l’infinita poesia che si sprigiona da questa città tranquilla ed ordinata, costruita in una
 pianura adorna di dolci colline, di parchi romantici, di castelli e di palazzi solenni. Si estende sulle due sponde d’un fiume che scorre lento, ora grigio, ora azzurro, come scorre la vita del mondo e degli uomini. È stato Nietzsche che per primo indovinò l’enigma di quelle vie diritte, affiancate da case rette da portici sott’i quali, anche con tempo di pioggia, si può passeggiare tranquillamente con i proprî amici, discutendo d’arte, di filosofia e di poesia, al riparo, tanto dell’acqua del cielo, quanto, durante l’estate, dei raggi troppo ardenti del sole. Torino è la città delle amicizie peripatetiche. È là che nascono quelle amicizie purissime, quelle amicizie platoniche, che ci empiono il cuore d’una gioia senza macchia, ci danno una premessa d’eternità e di cui si può trovare una eco nelle melodie di Chopin e nella pittura di Paolo Veronese. La bellezza di Torino è difficile a scorgere; talmente difficile che fuori di
 Nietzsche e di me stesso non conosco nessuno che se ne sia preoccupato finora.

Sospetto il conte di Gobineau di aver pressentito qualcosa in questa faccenda misteriosa, ma purtroppo non possiedo prove sufficienti per poterlo affermare. La bellezza di Torino non si svela che poco per volta, simile a una Gorgone buona e onesta che sa quanto costa a quelli che hanno la disgrazia di vedere la sua faccia interamente ed a un tratto. È infatti una bellezza che in alcuni casi può essere fatale. È ciò che successe a Federico Nietzsche.

Già indebolito da una vita di emozioni violente causategli dalle sue scoperte metafisiche e dalle sue avventure intellettuali di pensatore, non poté resistere a lungo alla contemplazione totale della bellezza torinese ed affondò nella demenza durante uno di quegli autunni in cui le ombre lunghe, la tranquillità del cielo, tutta quell’atmosfera di felicità e di convalescenza che si sprigiona dalla natura dopo le violenze criminali della primavera e le febbri estenuanti dell’estate, portano l’occulta bellezza di Torino al suo più alto grado di espressione. Allora tutto il popolo delle statue in marmo o in bronzo, i grandi uomini che durante tutto l’anno stanno immobili sopra i loro zoccoli bassi in mezzo al viavai continuo dei veicoli e dei pedoni, scendono penosamente dai loro piedestalli e dopo essersi distesi le membra s’incamminano prudentemente verso quella famosa piazza Castello ove hanno luogo i loro misteriosi conciliaboli. Vi si
 radunano per cantare in coro, sotto il cielo purissimo dell’autunno, l’ineffabile inno della fedeltà eterna e dell’eterna amicizia.

Vi si vede Lagrange, lo scienziato pensoso che s’appoggia al braccio robusto del colonnello Missori, dai baffi di grognard, e che in un combattimento contro gli Austriaci salvò la vita a Garibaldi facendogli scudo con il suo corpo ed uccidendo tre cavalieri nemici con la sua lunga rivoltella carica di cartucce dalla capsula sporgente.

Vi si vede lo stesso Garibaldi, il soldato senza paura, il leone barbuto dagli occhi di fanciulla sentimentale, ascoltare Giuseppe Verdi che gli racconta, con voce bassa e resa fessa dall’emozione, come compose la famosa romanza che canta il baritono nel second’atto del Trovatore: «...il balen del suo sorriso...». Vi si vede il re Vittorio Emanuele II, tutto in bronzo, coperto di nastri, di cordoni, di croci e di decorazioni, pure in bronzo, discutere di strategia con Emanuele Filiberto di Savoia, poggiato sull’elsa della sua lunga spada. Ed ovunque intorno, in tutta la città, è silenzio, felicità e meditazione. Le fontane Wallace, sulle pubbliche piazze, lasciano scorrere un’acqua fresca e limpida. Sulle facciate delle stazioni le lancette degli orologi segnano le due pomeridiane. Le locomotive si riposano e sopra i tetti degli edifici pubblici e dei grandi bazars, le orifiamme dai colori teneri ed ardenti, garriscono dolcemente ai soffi
 freschi che vengono di laggiù, dal fondo della pianura, da quelle Alpi che, lontano sulla linea dell’orizzonte chiaro, si vedono con le loro cime sempre incappucciate di neve. Torino vive sotto il segno del Toro. I primi abitanti ebbero come emblema un toro. Erano i Taurini (Taurinorum Gens), donde Torino.

Ora tutti sanno che il toro è uno dei quattro animali più enigmatici della creazione. Gli altri tre sono l’asino, il gallo e la gallina. Tutti e quattro questi animali sono profondamente antropomorfizzabili. Non è per nulla che nella mitologia greca un uomo con la testa di toro è messo a guardia della costruzione più misteriosa che si trovi nel mondo della leggenda. [...]
 
 
Fra le trappole di Juvarra
 
Marco Vallora
 
Come dimostra <<scenograficamente>> questa promozionale pagina <<turistica>>, Torino è stata una tappa decisiva per il Dioscuro De Chirico (il fratello Savinio è qui in ombra, ma presente pure lui, a governare il suo zoo di zie-galline). Dopo la Grecia, in cui è nato, figlio d'un ingegnere delle ferrovie, che ha ingravidato il suo immaginario con un miscuglio di meccanica & mitologia (Torino come Gorgone, che guarda se stessa e s'impaura, scoprendosi i tratti baffuti e polacchi di "Federico" Nietzsche: un Nietzsche ammattito, che danza con la esue polacchine inzaccherate di nichilismo, sul ritmo d'una svenevole Polonnaise di Chopin, altro che Wagner!).
Dopo Monaco dove da fratello maggiore accompagna il giovane talento di compositore di Alberto a studiar contrappunto dal grande Max Reger, e nelle soste in anticamera ecco che sfoglia le riviste Jugendstil e scopre il suo ispiratore Boecklin-gorgoni, isole dei morti e centauri. Dopo la sosta bellica nel Ricovero per Nevropatici du còté de Ferrara (la città turrita delle Cento Meraviglie) ove come per un incanto di fiaba stregata, alla E.T.A. Hoffmann, si ritrova per puro caso una pattuglia di <<figli di saturno>>, che non voglion morire in guerra e preferiscono seguire le loro fole presocratiche, strappandosi crudelmente il vessillo della primogenitura di quell'inusitato movimento dal nome Metafisica.
E si chiamano, guarda caso: De Chirico, Savinio, il poeta simbolista Govoni, Carrà e De Pisis-il Marchesino Pittore, ha già creato le sue camere Melodrammatiche e le sue Wunderkammer domestiche, e pranza al tavolo di casa patrizia protetto da un paravento, per non mescolarsi con i filistei...e infine, ecco Torino, come un'agnizione miracolata, un magnifico colpo di Teatro. Tra cacarelle militari alla Pontormo e deliqui lirici. L'anti-paese goethiano, ove olezzerebbero petulanti i limoni: semmai una trappola juvarriana, ove fioriscono subacquee ombre sinistre e portici ruffiani. La pagina è tutta dechirichiana: una mistura di diligenza scolastica, di temino per bene, con strappi improvvisi e intuizioni folgoranti. Sono gli anni in cui ha scoperto Schopenhauer e Nietzsche: splendide e profonde le lettere inviate a Papini.
Ma qui s'intuisce subito che ha già penetrato subito, da buon rabdomante levantino degl'enigmi, quanto la prosa trasognata del cantore brillo di Zarathustra nasconda un ghiottonissimo repertorio iconografico. Lancette fermate sulla non-ombra del demone meridiano. Fontane quasi meccaniche, che han smesso di singhiozzare su ritmi palazzeschiani o futuristi. Le statue che si sciolgono come fiumi stanchi, lasciando le briglia lasche a barbuti sabaudi e rompiballe storici, che se la vadano un attimo a fare pipì o sgranchirsi le gambe (e in quella conversazione poco sacra davanti Palazzo Madama c'è gran sentore della vernice di Pier Cloruro de' Lambicchi). Non le severe <<conversazioni platoniche>> di Casorati: le sue quinte inviti pirandelliani. No, l'architettura di De Chirico è appunto flessibile, tascabile, enigmatica. Ironia decostruttiva. Nasconde un mistero, a rimpiattino.
E' vernice schopenauriana del Nulla: il velo di Maja, la mantiglia di Carmen. La realtà si fa fluida come il Po (l'altro mentore è Eraclito, qui occultato dietro un monumento a Lagrange). Il fiume che affetta la città - un oro del Reno padano - si cosifica, in un obelisco a forma di biscotto. <<La sua pittura è il luogo del crimine>>, ha intuito un genio non riconosciuto come Cocteau, il primo a stanarlo. Ma De Chirico s'offende: perché lo ha paragonato al Dio delle Avanguardie, Pablo Picasso. E De Chirico vuole esser solo. Con Nietzsche.
 
da LA STAMPA VENERDI 14 NOVEMBRE 2008
    

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